Di Luigi Verrini, Bigio per tutti, sarebbe arduo tentare una biografia in senso proprio. Lui stesso confondeva, probabilmente in maniera affatto consapevole, le poche vicende della sua vita, quasi a voler depistare chi si azzardava a ficcare il naso nelle sue faccende private. Inoltre parlava di sé solo quando era visitato dal dio (Dioniso per i Greci, Bacco per i Romani…), mentre nelle pause di sobrietà era un altro, oserei dire uno qualsiasi, per lo più di scarse parole, e a uno qualsiasi non si chiedono normalmente notizie sulla sua vita.
Per questo ritengo che il migliore omaggio alla memoria di questo isolano indimenticabile sia riportare quanto su di lui fu scritto, in due diverse occasioni, da due suoi concittadini che lo hanno conosciuto e amato: Fabio Spaziani e Daniela Rosi. Due scritti molto diversi: breve il primo, assai espressivo nella sua icasticità che pare voglia quasi emulare l’arte stessa di Bigio nel rappresentarcelo con grande efficacia in pochi tratti essenziali; più meditato e personale, testimonianza di un rapporto non solo di stima e ammirazione, ma anche e soprattutto di amicizia il secondo. Il primo fu scritto in occasione della mostra organizzata nell’oratorio parrocchiale da alcuni suoi amici nel 1979, il secondo composto per il catalogo di un’altra mostra che volle essere un omaggio al pittore da poco scomparso, nel 1991.

Luigi Verrini classe 1912. Ma soltanto per l’ufficiale d’anagrafe. “Bigio” per tutti gli altri, da sempre.
Soggetto senza età, in libera solitudine. Artista totale. Con le mani, il pennello e l’ugola.
Dietro la sogghignante maschera di Bacco, piange: per le aspirazioni deluse, per l’amore perduto, per gli affetti mancati. Ma soprattutto irride: alla chiusura degli ignoranti, allo scherno degli imbecilli, al sussiego distaccato dei dotti, all’affanno degli accaparratori di gloria e di danaro.
Anima credente sotto la scorza blasfema. Spirito mite oltre il velo della rabbia. Animo pacifico dietro l’urlo ribelle dell’imprecazione. Filosofo beffardo dell’umana precarietà.
Bigio. Scadente bullone dell’avido ingranaggio produttivo. Cocciuto vindice dei valori supremi dello spirito umano.
Fabio Spaziani
Certo che il paese senza di lui non è più lo stesso.
Lo si vedeva camminare rasente i muri, oppure lo si poteva vedere seduto ad un tavolo di un bar, o ancora appoggiato di sbieco ad uno dei “cantoni” della piazza con l’occhio fosco e beffardo interrogare il passante. Talvolta inveiva, talaltra benediceva, magari dopo aver intinto l’indice nel “bianco” che gli stava davanti ed usandolo come un aspersorio sacrilego. Lo distingueva una personalissima espressività corporea che culminava con l’araldico gesto rampante della mano, che tutti gli conoscevano e che stava alla sua aristocrazia come lo stemma sta ai casati nobiliari.
In passato girava spesso con della carta paglierina, della tela, o superfici “generiche” sulle quali tracciare dei segni di vino, di carboncino, di erbe e fiori.
Nascevano così i suoi disegni, disegni che esibiva all’attenzione della gente o che sottraeva secondo l’estro o l’umore del momento. Erano madonne leonardesche, testimoni di una antica religiosità, putti cinquecenteschi di tanto in tanto come per errore qualche testa di vecchio con le caratteristiche della ritrattistica popolare dell’Ottocento, oppure qualche schizzo “ermetico” quando aveva bevuto un po’ di più e non riusciva a coordinare i movimenti. Questo suo mondo di segni era un mondo irruento pur nella dolcezza dei soggetti, era un labirinto psichico dove lottavano immagini per uscire alla forma, era il tentativo di esprimere ciò che il destino gli aveva impedito di vivere, costringendolo, dopo avergli mostrato lo splendore del “colore”, a sclerotizzarsi sul biano e nero, perchè la sua stessa vita si è svolta in bianco e nero.
Il carboncino è divenuto perciò il prolungamento della sua mano, perchè gli permetteva di trasmettere con immediatezza il suo rabbioso sentire direttamente dall’anima alla carta.
Negli ultimi tempi non disegnava più.
Tuttavia quei sentimenti che lo ispiravano non sono venuti mai meno.
Se Farinata aveva “l’inferno in gran dispitto” certo il Bigio aveva l’universo mondo, e a buon diritto, perchè la vita l’aveva preso alla sprovvista.
Era straordinariamente intelligente e molto colto. Aveva la vena dell’artista ma non aveva i mezzi economici per alimentarla. Forse avrebbe potuto essere un buon cantante lirico, così come avrebbe potuto essere un grande pittore: fu l’uno e l’altro ma fuori dai circuiti della notorietà e del denaro: fu Bigio.
Fu un artista domestico, per i pochi amici che hanno avuto il provilegio di conoscerlo ed amarlo e per tutti gli isolani, compresi i suoi detrattori.
Pur nella rinuncia obbligata, credo sia stato un fedelissimo amante.
Se penso a lui, lo debbo pensare come un uomo che ha sbagliato epoca: è rimasto sempre uomo del Rinascimento. E così è vissuto solo e privo di ogni comodità moderna.
Tuttavia nessuno che io abbia conosciuto è mai stato più libero di lui: libero di ignorare il progresso, libero da padroni, libero dal consumismo, libero di sposare qualsiasi atteggiamento, cosa quest’ultima che gli ha regalato parecchie inimicizie. Come tutti i personaggi di questa sorta il Bigio non era amato da tutti. Più di uno, infatti, ha dovuto saggare una delle sue stoccate inferte con la spada della lingua, e più di uno a ragione, ha avuto motivo di offendersi.
Del resto Bigio si vendicava di un’offesa cosmica che aveva subito, delle aspirazioni soffocate, degli appuntamenti mancati, dell’amore negato. Per lui la sorte ingrassava se stessa di un alimento che egli non riusciva a tollerare l’ignoranza.
Teneva in serbo una cornucopia di offese, tra il serio ed il faceto, che chi lo ha frequentato si è visto più volte riversare addosso:”carogna”, “cigagna”, “principessa”, “professor dei me c….”. Tuttavia quella più pesante, quella alla quale lui attribuiva il senso di un vero e proprio spregio era “ignorante”. Questa parola non fu mai da lui profferita col sorriso sulle labbra.
Ed era nel gioco di questa rapsodia di improperi che chi lo frequentava poteva passare repentinamente dalla risata al vero disagio.
Bigio era una sorta di Giano bifronte, e se quando aveva alzato il gomito ti concedeva una confidenza alla pari, quando era sobrio incuteva rispetto e soggezione.
E’ strano pensare a come va il mondo. Il dileggio, con quell’ammiccamento e quella complicità volti ad irritarlo per divertimento, era a pannaggio dei più miseri, di quelli che a lui erano infinitamente inferiori e per intelligenza e per cultura. Erano i suoi “Ignoranti”.
Non bisogna dimenticare, però, che accanto alla frustrazione del non realizzato, Bigio aveva anche la consapevolezza di se e delle sue capacità, cosa questa che lo ha reso anche “snob”.
Amava infatti frequentare la gente colta, ma quella vera, non quella titolata che spesso teneva in pochissimo conto.
Frequentava anche gli umili, gli ultimi, quelli senza pretese. La categoria che sopportava meno era quella di mezzo, quella della mediocrità.
Di diverso genere erano gli atteggiamenti degli altri verso di lui. C’è chi lo ha amato ad oltranza, come me, anche quando i suoi schiaffi morali colpivano; chi si è rapportato a lui con un senso di disagio per la sua imprevedibilità e chi lo ha cordialmente detestato.
A suo modo è vissuto da prima donna.
Una prima donna di paese, come la Gradisca di Amarcord, e, come ogni primadonna che si rispetti si è concesso piccole invidie e piccole gelosie e non è rimasto immune dal pettegolezzo.
E’ questo il tratto che lo rende più nostro, che lo lega ad Isola della Scala.
Sempre vissuto nel nostro paese non si capisce perchè talvolta parlasse un dialetto veneziano da lui rivisitato, a meno che non si accetti la tesi da lui stesso fornita, secondo la quale avrebbe lavorato in San Marco per certi interventi di restauro (?….). Fatto stà che il suo veneziano era radicale, tanto da fargli cantare:”Mimì xsè ‘na civetta…”.
Le romanze le conosceva tutte e se le ascoltava alla radio quando non la metteva fuori uso con un colpo ben assestato, o con qualche giradischi che, di tanto in tanto gli amici gli fornivano e che faceva spesso la stessa fine della radio.
Il “Tempio”, come lui chiamava la sua casa, era una sorta di accampamento nomade in una colombara con i tratti di una precarietà antica che era divenuta ormai stanziale. Che io ricordi è sempre vissuto lì, ma sembrava sempre tutto molto provvisorio…
Ultimamente sono tornata là per rivedere gli “affreschi”, ed ho provato uno struggimento inenarrabile ricordando un Natale di anni fa. Lo avevo invitato a pranzo da me. Ero appena sposata ed abituata a passare le feste a casa di parenti. Non avvezza quindi a prepare il tradizionale pranzo natalizio, impiegai la vigilia e l’intera mattinata della festa perchè tutto fosse secondo le migliori tradizioni.
Avevo sbagliato il calcolo.
Bigio non lo si poteva invitare quando l’invito potesse essere scambiato per un atto di carità. Il Natale si passa in famiglia, e lui non aveva famiglia. La mia non poteva essere sostitutiva. Far esistere il nulla è un concetto che il mondo moderno conosce bene, ma il filosofo Bigio ne ha scoperto ben presto l’inghippo.
Non venne.
Andai io la al Tempio. Era seduto su di un sedile di corriera che fungeva da divano; accoccolato vicino alla cucina economica leggeva Dostoevskij.
Allora mi commossi ma anche mi arrabbiai; andai a casa a recuperare il pranzo e lo portai là.
Oggi so che aveva ragione lui.
Michelangelo, Raffaello, Tolstoj, Cechov, Dante, Petrarca, Puccini, Verdi, Kant, i greci. Con lui ho parlato di tutto.
Poteva iniziare le sue dispute filosofiche con la domanda:”Ti! chi elo più intelijente, Platone o quel cretino de Aristotele?”. E non potevi fargli riformulare la domanda perchè non ammetteva repliche, e se gli chiedevi che cosa avesse detto ti rispondeva:”Sì, doman…”.
Quasi sempre i grandi discorsi li faceva quando aveva bevuto, ed allora parlava tenendosi la mano davanti la bocca, per impedire che ti investissero le zaffate d
ell’alcool.
Era un bell’uomo, elegante per natura. Lo è stato fino alla fine.
Lo ricordo passare in bicicletta d’estate con i pantaloni chiari e le scarpe di corda.
Negli ultimi tempi approdato alla casa popolare che il comune gli aveva concesso, era felice, felice di quelle comodità che fanno la casa borghese, dal gusto “geometrale”, con il riscaldamento ed il bagno che non aveva mai avuto. A me, da viziata alla quale non è mai mancato nulla, quella nuova dimora sembrava il segno della sua decadenza la resa dello spirito ribelle, la fine del mito bohèmienne così ben impersonato da questo amatissimo amico.
Non riuscivo a vederlo tra quelle “buone cose di pessimo gusto”.
Bigio intuiva questo mio disagio, e uno degli ultimi giorni prima del suo ricovero ospedaliero finale, seduto accanto alla finestra, lo sguardo rivolto all’orizzonte lontano per evitare di incrociare il mio, quasi per giustificare questa sua estrema conversione ad un po’ di comodità mi disse:”La vita solitaria e scapigliata sembra bella solo a chi non è toccato in sorte di viverla”.
Tuttavia, per arcano superiore che lo voleva fedele alla vita trascorsa, queste parole vennero ben presto contraddette dalla realtà.
Circondato dall’affetto della sorella, nomade reale che ha abbandonato il circo per terminare la sua esistenza con il fratello, e dalle cure sollecite delle donne sue parenti ha concluso la sua vita in un letto d’ospedale nell’anonimato che ci rende soli comunque nei momenti estremi.
Voleva che la sua prostrazione fosse letta come il risultato della vita.
Così, con la consunzione del corpo si ripristinava una nuova tenacia e l’estrema immagine di un Bigio riletto attraverso i suoi soggetti pittorici: una sorta di deposizione col Cristo e le pie donne. Questo Cristo riconciliato con la vita, che finalmente depone la croce con una dignità che coloro che gli sono rimasti vicini fino alla fine non potranno dimenticare.
Daniela Rosi

tempera su muro fotografata nell’abitazione dell’artista

Carboncino e gessetti su cartoncino

carboncino su carta


Carboncino su cartoncino
Le immagini presenti sono state tratte dal libro BIGIO realizzato dal Comune di Isola della Scala in occasione della mostra antologica delle opere di Luigi Verrini tenutasi nel settembre-ottobre del 1993.