Proposta di restauro dell’organo dell’Abazia di Isola della Scala

Riportiamo di seguito la prima parte della Tesi di Laurea di primo livello esposta nel 2006 da Carozzi Gregorio, studente del Corso Triennale Sperimentale in Restauro dell’Accademia G.B. Cignaroli. La tesi ha riguardato il restauro dell’organo dell’Abazia di Isola della Scala. Relatore fu l’isolano Prof. Arch. Arturo Sandrini, scomparso improvvisamente nel settembre del 2006. 

Laureando: Carozzi Gregorio

PROPOSTA D’INTERVENTO PER IL RESTAURO
DELL’ORGANO DELL’ABBAZIA DEI SS. STEFANO E GIACOMO
PRESSO ISOLA DELLA SCALA (VERONA) 

INTRODUZIONE

Il restauro di strumenti musicali è una branca della disciplina che richiede delle considerazioni a sé stanti. Sebbene la finalità sia identica, cioè di poter rendere l’opera nuovamente fruibile, in quanto per l’appunto si tratta di uno strumento musicale, le modalità e le linee teoriche che guidano le fasi d’intervento sono diverse.
Questo campo inoltre presenta un’ulteriore particolarità, infatti, l’unico documento ufficiale presente è la carta di Cremona del 1987(1), che però risulta trattare solo l’ambito dei beni liutai. Essa comunque fornisce dei “principi guida” validi anche per altri strumenti, in quanto essa stabilisce che l’intervento di restauro su uno strumento musicale, oltre a ricomporne l’immagine, debba, principalmente, riuscire a ridare o a mantenere la “voce” dello strumento, che ne è l’essenza. Per questo motivo, nell’ambito musicale, operazioni che vengono ostacolate o criticate in altri settori di restauro (come reintegrazioni o sostituzioni) si rendono invece necessarie, per esempio qualora la corda di un violino si spezzi o la canna di un organo si danneggi. In ogni caso, data la mancanza di testi ufficiali specifici, l’odierno restauratore di organi si dovrà basare su delle linee guida fornite dall’Associazione Italiana Organari (A.I.O.) nella “Normativa per il restauro degli organi antichi”(2), approvata da tale associazione il 1° Aprile 1995 e presentata a Bergamo il 22 Aprile dello stesso anno, in occasione del convegno “I Serassi e l’arte organaria fra Sette e Ottocento”. La normativa, non fu presentata come documento ufficiale, al pari di una carta del restauro, ma come una dichiarazione d’intenti che funzionasse da base di partenza, per ordinare e porre chiarezza operativa in questo settore. Un’altra normativa che fornisce una guida all’interno di questo campo è contenuta nel testo “Conservazione e restauro degli organi storici: problemi, metodi, strumenti” del 1998.(3)
E’ basandomi su questi documenti che ho affrontato la stesura del progetto di restauro dell’organo dell’abbazia di Santo Stefano a Isola della Scala, databile, almeno per quanto riguarda la facciata, intorno alla prima metà del XVI secolo. 
Bisogna far presente che il progetto che segue non si prenderà cura della parte meccanica dell’organo se non in modo marginale, in quanto tale parte è affidata a figure professionali specializzate del settore, ma ci si occuperà del restauro della cassa lignea esterna dell’organo. 
L’iter di questo progetto, secondo quanto appreso ed elaborato dagli insegnamenti ricevuti in questi anni presso la Scuola Sperimentale di Restauro dell’Accademia G. B. Cignaroli, è basato su un approccio al manufatto di tipo conoscitivo, che considera l’opera non un oggetto puramente estetico privo di memoria, ma come una fonte di informazioni, un documento storico che porta sulla propria pelle i segni del suo passaggio nella storia. Questo orientamento di tipo filologico ci guida attraverso un percorso preciso che prima di arrivare alla redazione di un progetto si pone l’obbiettivo di conoscere la storia del manufatto, per stabilirne il suo significato storico- artistico (come testimonianza circa le prassi esecutive e le vicende dell’arte organaria delle varie epoche), e le eventuali alterazioni apportate alla sua fisionomia e struttura attraverso i secoli. In questo compito sarà d’aiuto la raccolta di documenti d’archivio, da fonti pubbliche o private, comprese testimonianze di tipo orale di eventi particolari, che possono supplire eventuali mancanze di documentazione.
L’indagine storica preliminare sarà affiancata da indagini di carattere strumentale e scientifico, allo scopo non solo di individuare i materiali di cui è composta l’opera e poter stabilire lo stato di conservazione in cui versa attualmente, ma anche la successione delle stratificazioni storiche di eventuali interventi pregressi. Solo dopo questo studio accurato, sarà possibile decidere le caratteristiche e i limiti dell’intervento che dovrà tenere conto delle stratificazioni storiche nel valutare il recupero delle sue caratteristiche d’origine. Attenendoci alle normative di cui sopra, tutti gli interventi risalenti a meno di 50 anni fa sono considerati non storicizzati e per questo motivo dovrebbero essere rimossi per ridare al manufatto il suo aspetto originale. Invece, secondo le moderne teorie conservative, ogni singolo intervento o trasformazione deve essere considerato come componente della storia del manufatto. A questo scopo ogni progetto di restauro deve valutare caso per caso se gli interventi pregressi, a qualunque epoca appartengano, siano o no dannosi per la sopravvivenza dell’opera e solo in seguito deciderne la loro eliminazione.

ANALISI STORICA

L’abbazia dei SS. Stefano e Giacomo

Le origini della pieve di Isola della Scala sono molto antiche e le sue radici si sviluppano contemporaneamente alla nascita del paese. Si può far risalire la sua presenza all’epoca Alto Medioevale, intorno al VIII- IX sec., a confermare questa tesi è proprio la sua intitolazione a Santo Stefano protomartire: infatti, fino al X sec. la tradizione voleva che le chiese battesimali fossero intitolate ad un martire.(4)
La prima prova scritta che ci attesta la presenza della pieve nel territorio è un documento del X secolo, che riguarda una disputa intorno ad un testamento alla presenza del Patriarca di Aquileia. La chiesa attuale non è, tuttavia, quella originale. L’edificio che si osserva oggi nella piazza del paese, realizzato su progetto di Bernardino Brugnoli, nipote del celebre Michele Sanmicheli, esponente di una “consorteria” familiare da più generazioni attiva nell’architettura civile, militare e religiosa,(5) risale al 1578 e fu completato e inaugurato nel 1619, nel giorno della festività di San Giacomo, il 25 luglio, che divenne così contitolare della chiesa(6). La riedificazione fu dovuta alla precarietà dell’edificio precedente, considerato pericolante, nonché alla volontà di adattarla alle norme imposte dal Concilio di Trento (1545- 1563) sulla costruzione degli edifici sacri. Il pagamento dei lavori fu completamente a carico del comune che era in debito con la parrocchia di una grossa somma di denaro; il parroco per affrettare la decisione del Comune, sospese le celebrazioni, fino a quando il sindaco non avesse tenuto fede all’impegno preso(7). Un disegno del 1561, che raffigura la pianta del paese, ad opera di Cristoforo Sorte(8), presenta la chiesa con l’abside rivolto ad Oriente, mentre oggi guarda dalla parte opposta, a Occidente. Oltretutto le misure sulla carta del 1561 sono sommariamente di 34,50 x 20,30 m, la pianta attuale, 51,7x 21,8 m, mantiene più o meno la stessa larghezza ma viene allungata arretrando l’attuale nuova abside. Il tempio che un recente restauro ha contribuito a farne meglio cogliere gli apparati decorativi, è costituito da un’unica navata di sorprendente ampiezza, secondo le regole post-conciliari che promuovevano la riscoperta della pianta basilicale. Le pareti sono decorate con motivi a candelabbra e lo stemma del paese, più volte ripetuto. Le cappelle del transetto conservano due pregevolissimi altari, per la complessa struttura e la ricchezza dei marmi. In particolare, quello di sinistra fu realizzato dall’architetto Luigi Trezza. Il catino absidale, come le cappelle del transetto, è decorato con un motivo a cassettoni esagonali dipinti, intervallati a rombi. 
Nel tornacoro sono alloggiate tre pale che rappresentano il processo, il martirio e la sepoltura di Santo Stefano. La tela raffigurante il martirio ha come cornice la preziosa cassa lignea dell’organo, interamente dorata. Dopo un’iniziale attribuzione al pittore Claudio Ridolfi (1594- 1650) che risale alla guida del Lanceni (1720), in cui riportava: “Nella cappella dell’Altare Maggiore, tre quadri dipinti con azioni, e morte di S. Stefano: Opera non picciola di Claudio Ridolfi”(9), una recente perizia attribuisce la paternità di queste opere al pittore veronese Felice Brusasorci (1538/39- 1605)(10). Le tre opere, considerato anche il lungo svolgersi del cantiere della chiesa, sono di datazioni diverse, in particolare la tela centrale del martirio, che, stilisticamente, è attribuita al periodo della prima maturità dell’artista intorno agli anni ’70 del ‘500. 

L’organo

Le notizie su questo strumento all’interno della chiesa sono poche e frammentarie. Il primo riferimento certo lo troviamo nei verbali delle visite pastorali del vescovo Giberti, in data 10 Maggio 1532(11), in cui viene nominato un organaro, tale Giovanni Maria Porticella(12), intento a costruire l’organo gia dal 1530. insolitamente, vi è un inventario dei beni ecclesiastici e degli arredi sacri della parrocchiale, in cui è indicato, con tanto di data, “Un organo novo facto 1534”(13). Si presume quindi che questo sia l’anno d’inaugurazione del nuovo strumento. Precedentemente si può pensare che fosse già presente un organo in quanto nei registri della Fabbriceria sono presenti i pagamenti fatti all’organista, che aveva l’incarico di suonare tutte le domeniche e “le feste principali e feste d’Apostoli”, già nel 1369(14).
Per avere altre notizie documentate sulla storia dell’organo dobbiamo fare un lungo balzo temporale fino ad arrivare al 1776(15), anno in cui lo strumento viene spostato dalla sua posizione originaria, per essere poi collocato sopra la porta nord; osservando attentamente la parete sopra la porta si possono notare dei leggeri segni spioventi che evidenziano il perimetro e l’altezza a cui era collocato il timpano dell’organo. Solo recentemente, nel 1932, viene nuovamente spostato per collocarlo questa volta nel catino absidale, che veniva considerata la sua posizione originaria e viene dotato di nuova consolle, dalla ditta di Domenico Farinati. Di questo spostamento ne abbiamo notizia anche in una lettera datata 8 luglio 1934, indirizzata al “Signor Sopraintendente” in cui l’abate Giuseppe Fontana richiedeva, in occasione della sagra paesana, di interdire l’area del sagrato della chiesa, e dintorni, all’esplosione di fuochi artificiali che in passato avevano già causato danni alle vetrate e inoltre si diceva preoccupato per i danni causati alle strutture della chiesa, già pericolanti, in quanto affermava che “nella sistemazione recente dell’Organo si è verificato uno strapiombo dei muri maestri di 25 centimetri verso l’interno”(16). È logico supporre quindi che il trasporto dell’organo dalla parete nord al coro sia stato suggerito anche per motivi di sicurezza. Le componenti meccaniche dell’organo vengono più volte rimaneggiate. Sempre dai registri della parrocchia delle Entrate e delle Uscite, alla voce “Categoria Sesta: Manutenzioni e riparazioni mobili e attrezzi”(17), si enuncia che dal 1893 al 1899 vari versamenti sono stati effettuati causa riparazioni o manutenzioni dell’organo. Fino al 1898, anno in cui compare il nome di Domenico Farinati, organaro di origine veronese, trasferitosi a Genova, a cui viene versata la prima rata per, come si legge sul progetto stesso, “il progetto di un nuovo organo da costruirsi per la Chiesa di Isola della Scala provincia di Verona”(18), per l’ammontare di lire 10.000. “Tale prezzo”, come si legge sempre nel documento del progetto, “non comprende la cassa esterna”. Questo intervento comprendeva “due tastiere manuali di 58 note (Do- La), una pedaliera di 30 note (Do- Fa) ed i seguenti registri: alla prima tastiera (Grande Organo) Bordone, Principale, Clarabella, Dulciana, Tromba, Flauto Armonico, Ottava, Decima V, Ripieno. Alla seconda tastiera (Organo Espressivo) Eufonio, Gamba, Bordone, Voce Celeste, Oboe, Flauto, Ottava, Ripieno. Ai pedali: Contro Bassi, Bordone Dolce e Violoncello”(19). Per un totale di 20 registri. Il collaudo avvenne nel 1900 e fu affidato ad Oreste Ravanello, maestro di cappella di Sant’Antonio a Padova. L’organo, per quanto riguarda il sistema musicale viene perciò completamente rifatto, oggi infatti le canne più vecchie che possiamo trovare sono quelle relative a questo intervento. Nel 1899 dai registri consuntivi emerge che venne stipendiato un certo Giuseppe Sontedera per il “ ristauro e doratura”(20) della cassa dell’organo. Infatti osservando la cornice dorata dell’organo si può notare una diversa tipologia di doratura: una di aspetto lucido, che probabilmente è la doratura originale, a foglia d’oro che segue principalmente le cornici della decorazione; una invece di aspetto più opaco che potrebbe risalire a quell’intervento, realizzata forse a porporina o polvere d’oro, con cui sono state dipinte le decorazioni fitomorfe.

Nel 1932 anno in cui viene trasportato in “coro”, insieme alle spese di trasporto(21), viene spesa la somma di 415 lire per, si legge testualmente, “rifacimento decorazione (…) Organo” (22). Nel 1945 l’organo viene dotato di alimentazione elettrica. Nell’anno 1947, nuovamente la ditta Farinati viene incaricata con un compenso di 48.510 Lire di provvedere alla “riparazione radicale e aggiunte Organo”(23). Nel ’54 e poi nel ’55 altri lavori di restauro e riparazione vengono finanziati ma non ne conosciamo l’entit(24)
Negli anni l’organo necessita di sempre più manutenzioni finchè con i restauri del 1966, si decide di affidare alla ditta padovana dei fratelli Ruffati (noti costruttori d’organi), il restauro dello strumento, poi inaugurato il 29 giugno del 1967. In questo intervento la struttura musicale dell’organo viene preservata, nonostante qualche aggiunta di nuove voci e di alcuni somieri. L’intervento più massiccio fu quello di trasportare l’intera struttura dell’organo facendola arretrare di un metro, senza smontarla. La parte di canne che non poteva stare dietro l’organo venne spostata in una stanza apposita nel transetto nord. Questa divisione ha generato non pochi problemi in quanto le canne e le varie parti dell’organo, reagiscono in modo diverso a condizioni microclimatiche differenti, con il risultato che spesso i due blocchi di canne risultavano stonati soprattutto in inverno quando a causa del riscaldamento l’abside si trovava ad essere più caldo rispetto alla stanza del transetto.

Storia ed evoluzione dell’arte organaria

Tra gli strumenti a tasto l’organo è quello che può vantare la tradizione più antica.
La paternità dell’organo viene attribuita al greco Ctesibio di Alessandria (vissuto nel III sec. a.C.) e poiché, per il suo funzionamento, l’aria, prodotta da pompe, era mantenuta a pressione pressoché costante in un serbatoio a campana immerso nell’acqua, lo strumento veniva chiamato Hydraulis o Hydraulos, letteralmente: alulos che funziona con l’acqua(25)
Con il passaggio al mondo romano, il meccanismo idraulico venne sostituito da uno pneumatico, in cui l’aria era prodotta da un mantice.
Questo strumento era suonato in occasioni particolari come spettacoli pubblici che avevano per protagonisti leoni e cristiani: è dunque comprensibile che l’impiego liturgico di tale strumento avvenne molto più tardi in quanto suscitava nei fedeli ricordi sgradevoli del martirio.
Dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, la costruzione degli organi rimase confinata in Medio Oriente e ritornò in Europa a partire dall’VIII secolo in età carolingia (prima sotto Pipino il Breve e in seguito con Carlo Magno). Da questo momento l’organo ha costituito un elemento essenziale, pressoché inscindibile, delle funzioni liturgiche cristiane. Attraverso una graduale evoluzione tecnica lo strumento viene perfezionandosi nei suoi meccanismi: l’aria veniva compressa dai mantici (una volta azionati a mano) nel somiere, una cassa di legno chiusa ermeticamente, e da qui, attraverso un sistema di valvole, chiamate ventilabri e azionate da tasti, veniva distribuita alle canne.
Nel Medioevo erano molto diffusi gli organi portativi (organetti), strumenti portatili risalenti all’impero bizantino, importati in Europa nel XIII secolo. Si suonavano appoggiando lo strumento sulle ginocchia o anche a tracolla, il musicista usava la mano destra per pigiare i tasti dell’unico manuale, mentre con la sinistra azionava un piccolo mantice. I portativi erano usati nelle processioni e nella musica da camera e spesso veniva rappresentato nell’iconografia del tempo come strumento di accompagnamento ai cori degli angeli. Sopravvissero fino al XVI secolo. Accanto a questi vi era un altro tipo di organi di piccole dimensioni, chiamati positivi, poiché di dimensioni un po’ più grandi, venivano “posti” sul pavimento o su di un tavolo. Sopravvissero fino al XIX secolo, anche se oggi si tende a riutilizzarli in chiese di piccole dimensioni.
La tastiera, o manuale, si sviluppò lentamente ma nel XIV secolo era già abbastanza perfezionata da permettere composizioni ed esecuzioni apprezzabili da un vasto pubblico(26). Generalmente i tasti erano costruiti in legno, preferibilmente di abete, e ricoperti in ebano e bosso, montati sul telaio a sua volta di abete o faggio. Nel Medioevo i tasti erano invece delle vere e proprie leve, sostituite in seguito da una sorta di bottoni che agivano direttamente sui ventilabri, e che dovevano essere premute con una certa forza. 
Sempre nello stessa epoca venne introdotta la pedaliera: una serie di lunghe leve di legno azionate dai piedi. Sopra ai pedali si trovano le staffe, che controllano il crescendo e l’espressione per i manuali.
Nel XV secolo la tastiera è ormai il prototipo di quella odierna.
Fino a questo periodo l’unico modo per usare più file o gruppi di file separati di canne era quello dei manuali multipli, in questi anni viene invece introdotto il nuovo meccanismo dei registri, vale a dire file di canne di diverse altezze, diametri e forme, in grado di riprodurre un’ampia gamma di colori sonori (dai flauti, alle ance, alla tromba, ecc.), impiegati dall’organista per variare il suono emesso dallo strumento, in parte secondo le indicazioni della partitura, molto spesso secondo la circostanza e la personale sensibilità(27). Con questo meccanismo si incentivò l’interesse nel poter realizzare con tale strumento qualità timbriche diverse. Mentre alla pedaliera corrisponde una sola serie di canne, ogni manuale ne ha più d’una, che possono essere usate separatamente o insieme tirando gli opportuni pomelli di registrazione situati sulla consolle.
Ogni registro ha una canna per nota, determinata dalla lunghezza della canna.
Passiamo ora a descrivere come le componenti fin qui accennate interagiscono tra loro e secondo quali meccanismi.
Abbiamo già parlato del somiere, la cassa di legno su cui sono inserite le canne e nel quale viene pompata l’aria, la quale è divisa da una serie di valvole dette ventilabri, quando sono chiusi l’aria non passa e quindi le canne non possono vibrare ed emettere il suono. Quando si preme un tasto questo è collegato, tramite tiranti e una serie di leve, ai ventilabri; quando viene pigiato il tasto, o il pedale, il ventilabro si apre lasciando passare l’aria che dal somiere va alla canna, l’aria colpisce il labbro della canna, fessura orizzontale che si trova sulla canna stessa a varie altezze) che entra in vibrazione. I pomelli di registrazione vanno ad azionare dei cursori che tappano o aprono le canne o la serie interessate(28).
La canna fondamentale dell’organo, o canna ad anima, assomiglia da vicino ad un fischietto. Un altro tipo di canna è la “canna ad ancia”; gli strumenti a fiato muniti di ancia, ampiamente diffusi nel medioevo vennero adattati agli organi nel XV secolo. Queste canne hanno, di norma, forma conica rovesciata, tuttavia se si fa uso di un risuonatore cilindrico esso ha sulle ance lo stesso effetto che il tappo produce sulla canna ad anima, cioè ne abbassa il suono di un’ottava. Alcune canne ad ancia avevano risuonatori decisamente molto corti chiamati “regali”. I piccoli organi costruiti con queste canne erano per l’appunto nominati “organi regali”. Negli organi di maggiori dimensioni i registri regali furono sviluppati in modo da produrre un’ampia gamma di qualità sonore come quella più moderna della vox humana. 
Le canne dell’organo possono essere costruite con materiali diversi: solitamente quelle metalliche sono costruite in stagno al 90%, quelle in legno sono in legno di abete ben stagionato in apposite stanze e trattato con adatte vernici protettive, venivano realizzate anche con materiali molto deperibili come tele inamidate o cartone incollato.
Nel XV secolo l’organo completa il suo sviluppo con due o più manuali, pedaliera, registri separati e una grande varietà di timbri dati dalle diverse canne ad anima o ad ancia.

ANALISI STILISTICA

Dai dati in nostro possesso possiamo con sicurezza affermare che la parte meccanica dell’organo risale alla fine del ‘800, quindi all’intervento di Domenico Farinati e in parte al restauro effettuato dalla ditta Ruffati nel 1966. Per la cassa purtroppo non possiamo dire che essa appartenga con sicurezza all’organo costruito nel 1534 da Giovanni Maria Porticella. Con molta probabilità la cassa, perlomeno quella interna, proveniva da un organo già esistente e venne riutilizzata per quello dell’abazia.
La cassa dell’organo è composta visibilmente da due corpi principali: la cassa esterna, che riprende la tipologia architettonica a tempietto, con timpano sorretto dalle due paraste laterali rastremate, e la cassa più interna, interamente dorata, divisa in sette scomparti, che incornicia la preziosa tela di Domenico Brusasorci, raffigurante il “Martirio di Santo Stefano”, in cui il Santo inginocchiato si volge verso l’angelo che gli sta porgendo una corona d’alloro, mentre gli astanti stanno raccogliendo delle pietre per lapidarlo. 
La cassa architettonica è di colore grigio verde, con le parti aggettanti e le creste della rastrematura delle paraste decorate probabilmente a foglia oro; le due paraste laterali sorreggono la pesante trabeazione, composta di un massiccio architrave e dal solido timpano che inquadra un cartiglio decorato a volute dorate con i simboli vescovili di colore ocra su fondo azzurro: il bastone pastorale e una croce incrociati dietro la mitra, il copricapo del vescovo.
Per dare un maggior senso di profondità le cornici interne delle falde del timpano sono strombate verso il fondo. I lati dell’architrave sono rientranti per dare una migliore percezione illusoria della profondità e far risaltare la facciata. 
La trabeazione è divisa in due fasce da una sottile cornice. Sulla seconda fascia è riportata l’esortazione: “LAUDATE DEUM IN CHORDIS ET ORGANO”.

Il complesso del frontone poggia sulle esili lesene, terminanti con due capitelli che richiamano lontanamente un ordine corinzio rielaborato e semplificato per meglio adeguarsi alla decorazione della cassa interna. Le paraste poggiano su due bassi plinti torniti a toro e trochilo. 
La cassa interna, come abbiamo detto, è divisa in sette scomparti: quattro laterali che contengono alcune serie di canne che hanno solamente una funzione di tipo decorativo, risalenti al 1899; i tre più piccoli alla base, chiusi invece da un drappo rosso, infine quello centrale, che contiene la tela del Brusasorci.
L’intera cassa presenta una fitta decorazione con elementi fitomorfi, arricchita ancor di più nelle luci dei singoli scomparti con elementi traforati con il ricorrente motivo naturale con l’aggiunta di coppie di angeli di profilo che formano una cuspide che segue l’andamento piramidale delle canne decorative. La decorazione delle colonnine sembra sia realizzata a stucco e poi dorata. La tecnica di doratura non presenta caratteristiche omogenee su tutta la superficie. Ad un primo esame visivo le cornici e le parti aggettanti hanno un aspetto lucido con i segni tipici di una lavorazione a foglia e in alcune parti abrase si riscontra la presenza di una preparazione rosso-aranciata che farebbe pensare ad una preparazione a bolo. Le parti decorate a stucco invece hanno un aspetto molto più opaco, questa differenza può essere dovuto ad interventi successivi di restauro o di adattamento.
La pala centrale arricchita da una cornice tanto elaborata è stata di recente restaurata e reintelaiata, le sue dimensioni superano quelle della luce dello scomparto centrale di una decina di centimetri. La striscia inferiore della tela, però, venne aggiunta perché il quadro risultava più piccolo dello spazio ricavato sulla facciata.
La conformazione attuale della cassa non è quella originale ma lo spazio venne adattato alla tela, eliminando gli scomparti centrali, di cui restano ancora i segni nei capitelli della cornice superiore della cassa interna. L’ipotesi è confermata dalle testimonianze oculari raccolte da un’abitante del paese, ex sacrestano, che affermano che quando l’organo si trovava sulla parete nord la tela non c’era e al suo posto si trovavano canne simili a quelle che troviamo ora ai lati del dipinto. Nel ’32, quando l’organo venne trasferito sull’altar maggiore, fu posta la condizione di non nascondere o spostare la tela del “Martirio di Santo Stefano” che doveva mantenere la sua centralità; quindi “l’unica” soluzione, all’epoca, fu quella di ricavare all’interno della cassa lo spazio per posizionare il dipinto dove lo osserviamo oggi. 


Note 

1) “Carta di Cremona del 1987”, a cura del Comitato per la salvaguardia dei beni liutai nazionali.
2) “Norme per il restauro degli organi antichi”, a cura dell’A.I.O.
3) “Per una normativa tecnica del restauro degli strumenti musicali”, in Conservazione e restauro degli organi storici, problemi, metodi, strumenti.
4) Chiappa B., “Santo Stefano di Isola della Scala: una parrocchia attraverso i tempi”.
5) Chiappa B., “Isola della Scala: territorio e società rurale”; p.174. 
6) “Isola della Scala una comunità ecclesiale in cammino”, a cura della Parrocchia di Isola della Scala, p. 6.
7) Chiappa B., “Isola della Scala: territorio e società rurale”; p. 173.
8) ASVr, Fondo Murari, Disegno n°640. Chiappa B., “Santo Stefano di Isola della Scala”
9) Biancolini G.B., Notizie storiche delle chiese di Verona, p. 294. Lanceni G.B., Divertimento pittorico, pp. 91-92.
10) Chiappa B., “Isola della Scala: territorio e società rurale”; p. 179.
11) Chiappa B., “Santo Stefano di Isola della Scala”, pp. 57-58.
12) Rognini L., “Organi e organari a Verona”, p.434.
13) Ar. Parrocchia di Isola della Scala, 1-I-1, Libro battezzati, 1529/1571, c.229. 
14) Garzotti P., “Le pievi della città di Verona e la pieve di Isola della Scala”, pp. 72-73.
15) Chiappa B., “Isola della Scala”, pp. 182-185.
16) Ar. Soprintendenza ai Monumenti di Verona, 1934, Pos. II N° 10463. 
17) Ar. Parrocchia di Isola della Scala, Registri Consuntivi delle Entrate e delle Uscite, Anno 1893-1899.
18) Ar. Parrocchia di Isola della Scala, XII/74.
19) Ar. Parrocchia di Isola della Scala, XII/74.
20) Ar. Parrocchia di Isola della Scala, Registri Consuntivi, anno 1899.
21-22) Ar. Parrocchia di Isola della Scala, Bollettino Ecclesiatico, 1932.
23) Ar. Parrocchia di Isola della Scala, Bollettino Ecclesiatico, 1947.
24) Ar. Parrocchia di Isola della Scala, Bollettino Ecclesiatico,1954.
25) http://www.jongleurs.it/iconografia/strumenti4.htm
26) BAYNES A., “Storia degli strumenti musicali: dalle origini a oggi”, pp. 50-63.
27) http://it.wikipedia.org/wiki/Organo_(musica).
28) AA.VV., a cura della Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza e Belluno, “Un viaggio nella storia musicale dall’Europa a Verona”, pp. 88-95.


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– AA.VV., a cura della Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza e Belluno, “Un viaggio nella storia musicale dall’Europa a Verona”, da Conosci la tua provincia n° 16, La Grafica & Stampa Editrice s.r.l., Vicenza, 1985, pp. 88-95.
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– Archivio di Stato di Verona, Fondo Murari, disegno n° 640, Verona.
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– Archivio Parrocchiale di Isola della Scala, 1-I-1, Libro battezzati 1529-1571, c.229.
– Archivio della Sovrintendenza ai Monumenti, II- N° 10463.
– Archivio della Sovrintendenza ai Monumenti,40/4- N°2653.
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