Estratto dal Leonardo da Vinci
N. 12 del 19 Dicembre 1878 – Anno II
Qui di seguito riportiamo uno studio dell’Abate Garzotti Pietro pubblicato nel 1878. Si tratta di una ricerca da lui condotta riguardante un quadro che era presente all’interno della Canonica Abaziale e che egli riconduce al pennello di Raffaello Sanzio.
Si tratterebbe dell’opera Madonna del Velo, il cui originale si trova attualmente in Francia presso il museo francese Condé a Chantilly. Tale opera ebbe un enorme successo, tanto che venne riprodotta in numerose copie; una di esse venne anche segnalata nel XIX secolo a Verona e non è, pertanto, da escludere che la copia descritta dal Garzotti fosse proprio quella.
L’Abate Garzotti, scomparso il 5 novembre 1885, lasciava scritto nel testamento che il dipinto doveva essere spedito al Sommo Pontefice Leone XIII; recenti ricerche hanno confermato che copie del dipinto non sono custodite presso i Musei Vaticani; nulla toglie che possa essere conservato in altre stanze all’interno dello Stato del Vaticano.
Nel testo originale del Garzotti si riportano a piè di pagina alcune note che non sono presenti nella trascrizione qui di seguito in quanto illeggibili nella copia a nostra disposizione.
Il chiarissimo epigrafista latino, abate Morcelli, riferisce d’aver egli veduto presso il signor Annibale Maggiori, nobile di Fermo, una Madonna che con ambe le mani toglieva di sopra al Divino Bambolo giacente in culla e da sonno compreso, un sottilissimo velo: e vi era dappresso S. Giuseppe, che di quel beato spettacolo pascea gli occhi; nel cui bastone, lo stesso Morcelli scoprì e lesse una iscrizione appostavi in lettere oltremodo minute: R. S. U. A. A. XVII p. – Raffael Santius Urbinas Anno Aetatis XVII pinxit.
Ed il celebre abate Lanzi, facendo sua questa notizia, v’aggiunge: ” E questa dovette essere la prima prova di quel pensiero, che migliorò (Raffaello) adulto, e vedesi nel tesoro di Loreto: ove il Santo Fanciullo è rappresentato in atto, non di dormire, ma di alzare graziosamente le mani verso la Vergine”.
Senonchè Giorgio Vasari dice qualche cosa in più circostanziato di questa opera insigne del Sanzio già adulto e di ciò che dice rende ragione anticipata, perchè questo quadro, da esso lui descritto, dovesse poi trovare il suo posto tra i tesori del Santuario lauretano. Ecco come ne parla nella vita di Raffaello, dopo menzionati i lavori eseguiti in Roma nella Camera della Segnatura: ”Crebbero le virtù sue (di Raffaello) di maniera che seguitò per commissione del Papa (Giulio II che l’aveva chiamato al Vaticano) la Camera seconda verso la Sala Grande: ed Egli, che nome grandissimo aveva acquistato, ritrasse in questo tempo Papa Giulio in un quadro ad olio, tanto vivo e verace che facea timore il ritratto a vederlo, come se proprio Egli fosse vivo: la quale opera è oggi in Santa Maria del Popolo con un altro quadro di nostra Donna bellissimo, fatto medesimamente in questo tempo, dentrovi la Natività di Gesù Cristo, dove è la Vergine, che con un velo copre il Figliuolo, il quale è di tanta bellezza che nell’aria della testa e per tutte le membra dimostra essere vero Figliuolo di Dio: e non manco di quello è bella la testa ed il collo di essa Madonna, conoscendovi in Lei, oltrecchè la somma bellezza, allegrezza e pietà. Evvi un Giuseppe che, appoggiando ambe le mani ad una mazza, pensoso in contemplare il Re e la Regina del Cielo, sta con una ammirazione di vecchio santissimo; ed ammendue questi quadri si mostrano le Feste solenni.”
Come ognuno vede, queste parole del Vangelo valgono il più grande elogio, che potesse mai farsi ad uno de’ più bei dipinti di Raffaello: e di qua appunto nasce naturale il desiderio di saper della sorte riservata a questa nobile ispirazione dell’Urbinate.
E noi vedremo di soddisfarlo, seguitandone, per quanto è possibile, la storia.
Il Lanzi ed il Vasari insieme ci conservarono la memoria di esso quadro, e dei suoi estremi tempi noti, indicandone il luogo ove era conservato. Il Vasari, che visse dal 1512 al 1574 asserisce che questo quadro era e mostravasi in S. Maria del Popolo in Roma le feste solenni. Ora il Vasari fu a Roma e vi esercitò la pittura intorno al 1544 e potè quindi aver agio di vederlo, ammirarlo ed essere testimonio del generale entusiasmo che ridestava quella tela nelle periodiche esposizioni. Né vuolsi dimenticare, che il Vasari, grande conoscitore dell’arte, sebbene poco più che mezzano artista, era discepolo di Michelangelo: eppure fa di quel dipinto lo stupendo elogio più sopra riferito. Il come poi e per quali vicende la Madonna del Velo (così chiamossi anche quel soggetto) fosse tolta al luogo suindicato e in che mani capitasse, non conosco chi il dica: come pure s’ignora ove poggi la notizia dei compilatori delle note alle Vite del Vasari nella edizione Le-Monnier 1852, v. 8. Vita di Raffaello; che cioè “il quadro della Santa Famiglia, descritto, si crede lo stesso donato nel 1717 al tesoro di Loreto da certo Lottario Romano, onde ebbe il nome di Madonna di Loreto”. Ma checchè sia di tale questione, resta che anche con quest’ultima denominazione si prese poi a significare quella tela meravigliosa: come pure restò il fatto asserito dal Lanzi che al tempo nel quale scrisse la sua Storia dell’Arte, quella tela apparteneva al tesoro di Loreto.
E qui ognun conosce che l’abate Lanzi nato il 1732 moriva il 1810. Che se piuttosto che innanzi di parecchi anni, avesse posto termine a quel suo stimabile e faticoso lavoro in sullo spirare del secolo decimo ottavo, non avrebbe più potuto scrivere quel prodigio di pittura conservarsi nel tesoro di Loreto.
Ma già siamo giunti all’epoca nella quale il bagliore d’una libertà, ch’io non vorrò definire, da oltremonti si riflette anche sulle pacifiche e belle contrade italiane.
In nome della libertà, dell’amicizia, del rispetto alla proprietà, agli usi, alla religione il generale Bonaparte, favorito dalla fortuna, giunge coll’esercito repubblicano a Parma, a Piacenza e vende l’armistizio per venti milioni di lire milleseicento cavalli e centi quadri de’ migliori pennelli. A Milano, ripetute le più belle promesse, lascia fare e promuove allegrie; ma impone venti milioni, ruba chiese e Monte di Pietà. Anche da Modena il Bonaparte vuole dieci milioni e quadri de’ più insigni maestri. Più tardi lo stesso generale fatto si forte de’ pretesti del prepotente, e mandato dire a’ veneziani:” Io sarò un altro Attila per Venezia” egli in veste repubblicana distrugge gli ordini quattordici volte secolari della gloriosa Repubblica e tra l’altre ricche spoglie seco porta milioni, manoscritti rari e quadri preziosi.
Tutto ciò è detto anche non serbando l’ordine cronologico, per apparecchiare l’orecchio ad altro luttuoso ricordo. Napoleone istesso, due mesi innanzi dell’uccisione di Venezia, avea consumato lo spoglio del tesoro di Loreto!! e Papa Pio VI, forzato dovette mettere nelle mani del Grande Civilizzatore trenta milioni, manoscritti e quadri d’inestimabile prezzo!!
E qui faccio con altri solo un riflesso che fa al caso. Per quanto Italia potesse essere travolta dalle idee di novità ed abbacinata alla vista di grandi avvenimenti, non potea non sentirsi imperdonabilmente oltraggiata nel suo duplice culto perpetuo per la religione e per l’arte. Il sacco solo de’ quadri restava indelebile offesa al diritto delle genti, alla politica, al gusto. Né per verità allora stesso, mancò di ciò la protesta degl’italiani: e questa si fe’ manifesta cogli immensi sacrifici che s’imposero perchè lo sperpero del genio nazionale non accadesse così largo e rovinoso, come voluto avrebbe l’inesorabile Capitano!
Eppure anche questo delitto dovea essere acclamato a Parigi come un’eroica fatica!
Il Direttorio francese il 9 dicembre 1787 festante accoglieva l’esercito ed il suo capo reduce d’Italia, presentandoli d’una ricca bandiera ove leggevansi scritte in oro le troppo famose gesta dell’armata repubblicana e tra le altre era anche questa: spediti a Parigi i capolavori di Michelangelo, Raffaello e Leonardo!!!
Ora raffrontando ciò che scrisse la storia colla confessione solenne del Direttorio, appare bastantemente, che eziandio la Santa Famiglia, chiamata altrimenti, come è detta, la Madonna del Velo o di Loreto, opera esimia di Raffaello, fosse quale trofeo di conquista destinato alla Francia.
Senonchè, fosse frutto puro di sacrificio italiano oppure v’entrasse calcolo e raggiro nostrale o forestiero, quella tela non fu recata a Parigi: ma in cambio fu solo recato quel pensiero del sommo maestro, espresso da mezzano copista. Ciò è notissimo al mondo dell’arte.
E di qui hanno origine le posteriori contese di originalità sino all’epoca presente, tra alcuni de’ più belli esemplari qui e là conservati in Italia, i quali, più o meno perfettamente ricordano quel dipinto divino.
Né io qui ridirò ciò che di tutti e di ciascuno potrà sapere ogni amatore dell’arte: ed è ben lungi il pensiero di voler anche menomamente detrarre al loro merito. Restando essi tutti ciò che sono, vuolsi solamente rendere palese ai cultori e mecenati dell’arte, che oltre i già noti, esiste un altro esempl
are della Madonna del Velo: esemplare pressochè sconosciuto, nonché agli stranieri, anche agli italiani, e di tal pregio da interessare almeno qualsiasi intelligenti ad osservare se questo sia la vera e genuina ispirazione del pennello raffaellesco.
Chi scrive possiede tale esemplare da oltre quindici anni; conobbe d’avere un’insigne cosa; e vi fece sopra qualche studio: ma si tenne ad un rigoroso silenzio, alieno da ogni gara, massime allora che il municipio veronese pareva inclinato all’acquisto d’un altro esemplare, che esiste pare in Verona, e ripete lo stesso pensiero che formava già forse la sola speranza di un vecchio settuagenario.
Ora il tacere più oltre pare non convenga: massimo trattandosi di donare a vita una meraviglia di Raffaello, conservataci come per incanto, dal morso vorace dei secoli, e dalla vorace barbarie degli uomini.
Chi, non sapendolo, volesse pur rendersi ragione del come potesse ripetersi le tre, le cinque e più volte lo stesso pensiero dell’Urbinate con tale successo, da avvicinare forse l’originale del Maestro, non ha che da leggere nel Lanzi citato, al Libro III, e qui imparerà eziandio, se quantunque di classico pennello, la copia non possa giammai confondersi coll’originale, se questo sia di Raffaello. Forse si avrà discorso troppo per una notizia, che si volea dare; ma non parve richiedesse meno, né il sommo autore, né questa sua invenzione in ispecie, colla quale si rannodano tante vicende e tante contestazioni. Ma non vuolsi ancora por fine così, senza dare almeno un cenno delle impressioni che il quadro nostro svegliò in un savio e valente estimatore che più volte il volle studiare, per sola passione dell’arte e che ebbe la bontà di scriverci per disteso.
Egli scrive di conoscere gli altri esemplari del soggetto istesso, e per questa sua conoscenza essere in grado di rilevare nel presente notabili diversità ne’ caratteri delle teste, nel colorito, nel fondo ed in alcuni finimenti. Indi seguita:” Quando all’effetto che fece in me al vederlo di tratto dopo molto tempo, che per la seconda volta fui ad osservarlo, devo confessare, che mi aspettava la sensazione ed il prestigio che nasce da una beltà crescente, ad ogni volger di sguardo… Il quadro pinto in tela è di tutta conservazione, favorevole all’esame il più accurato, ed attesta d’esser stato sempre tenuto con rispettoso riguardo. Sono intatte le piccole screpolature causate dal tempo; per le quali si conosce essere la tela finissima e l’apparecchio egualmente… Nella fusione generale delle tinte si scorge la franchezza e sicurtà magistrale… Spontaneità, purezza e precisione nelle linee del disegno. Quanto poi alle forme ed ai caratteri, nella Madonna si scorge la perfezione del bello peruginesco: nel Figlio il classico caratteristico della Trasfigurazione: nel San Giuseppe il punto medio della maniera raffaellesca. E quali specialità nel colorito vago, succoso, trasparente, in cui l’arte è sovrana; così pure nella gradazione piazzata della luce, da ravvisarvi l’epoca migliore del dipingere di Raffaello…”
Quindi passa al particolare, considerando il quadro dal lato dell’espressione e dell’esecuzione, nelle quali due cose Raffaello è maestro di color che sanno; e chiude dichiarando non aver difficoltà alcuna a dare il proprio voto per la originalità del quadro.
Qualsiasi estimatore dell’arte potrà di per sé stesso rendersi ragione, se in tutto questo v’abbia esagerazione o meno. Detto quadro è sempre visibile nella Canonica Abaziale d’Isola della Scala, a diciotto chilometri sulla linea ferrata tra Verona e Legnago.
Isola della Scala, il novembre 1878.
Garzotti Pietro, Abate Arciprete