Ricordi di Vittorino Stanzial
di Filippo Bonfante
Ho conosciuto Vittorino, come molti altri della mia generazione, alle elementari. Non era il mio maestro, ma lo vedevo a scuola, accanto agli altri. Allora i maestri maschi non erano rari come adesso. Io avevo il maestro Salgarelli, poi c’era il maestro Barini, il maestro Totolo, il maestro Silvi… E Vittorino era uno fra questi.
Ma il vero incontro con lui lo ebbi qualche anno più tardi, quando, sulla soglia dell’adolescenza, divenni amico di suo figlio Domenico. Amico inseparabile. Insieme scoprimmo molte delle cose che ci avrebbero accompagnato poi nella nostra crescita culturale e spirituale. Coltivavamo la musica, la letteratura, la poesia. Al pianoforte di casa Stanzial io suonai le mie prime incerte note. Dal giradischi di Vittorino ascoltai per la prima volta le sinfonie di Beethoven… Questo giradischi si trovava nel suo studio. Lo studio di Vittorino meriterebbe un capitolo tutto per sé. Era il suo ambiente esclusivo. Quando io e Domenico ci trovavamo in salotto, magari appunto al pianoforte, lui entrava, tornando dalle sue occupazioni, e si dirigeva deciso nello studio. Altre volte vi accedeva dall’esterno, quindi nemmeno lo vedevamo arrivare, ma ne sentivamo poi la presenza. In sua assenza normalmente lo studio rimaneva chiuso a chiave. Ma per due ragazzi curiosi come noi questo era un invito! Accadde poche volte. Ma quelle volte ci sembrava di penetrare in un sacrario. Libri dappertutto, carte, fotografie. E dischi. Tanti dischi che Vittorino ascoltava alternando la musica alle altre occupazioni intellettuali. Come dicevo, in quello studio, in quei momenti “rubati” innocentemente alla sua intimità, io e Domenico scoprimmo Bach, Beethoven, Wagner, e molti altri musicisti che avrebbero contribuito a formare la nostra sensibilità musicale e artistica.
In quel periodo uscì anche la sua prima raccolta di poesie, “Neve di maggio”, che io e Domenico leggevamo, magari all’ombra della vicina Torre Scaligera, alternandole a brani della Divina Commedia, in particolare del Paradiso…
Ho anche qualche ricordo meno intellettuale di quegli anni. Uno in particolare che adesso fa sorridere, ma che allora mi fece stare in pena. Facevamo il liceo, e Domenico doveva riparare delle materie a settembre; e siccome faticava ad alzarsi la mattina per studiare, avevamo concordato un sistema infallibile, che faceva leva sul mio esemplare spirito di sacrificio: ogni mattina alle sei (!!!) io mi dovevo recare sotto la finestra della sua camera da letto e tirare una cordicella legata al suo alluce… La cosa funzionò per un paio di giorni, finché una mattina, mentre tiravo con tutta la dolcezza del caso, si apre la finestra accanto, e ne esce un Vittorino in canottiera il quale, ignaro del nostro stratagemma, mi urla: “Vuto finirla de vegner a romparghe le scatole?? Lo capìsito che el gà da studiar???”
Fui così avvilito che non ebbi il coraggio di giustificarmi rivelandogli che al contrario io in questo modo anziché distoglierlo lo aiutavo a studiare! Glielo dissi una trentina di anni dopo – e anche più – durante la cena per i 50 anni di Domenico…
Sempre in quel periodo ebbi esperienza della passione di Vittorino per la montagna.
Era l’estate del 1970. Avevo 17 anni. Sotto la sua guida, con Domenico e altri amici affrontammo il sentiero Orsi sul gruppo del Brenta, raggiungendo, dopo un giorno di cammino e una notte trascorsa in un rifugio, la Cima Tosa a oltre 3000 metri. Era la prima volta (e onestamente fu anche l’ultima di quella difficoltà) che mi cimentavo in una simile impresa. Vittorino era naturalmente il capo cordata. Ricordo molto bene la sua abilità e il suo coraggio nell’affrontare le situazioni a volte non facili che ci si presentavano. Quando riuscimmo finalmente a conquistare la cima, circondati dal bianco accecante delle nevi perenni, su sua iniziativa ci stringemmo reciprocamente la mano per complimentarci a vicenda della riuscita dell’impresa. Seppi in quell’occasione che quella era solo una delle tante scalate che aveva fatto, spesso anche in solitaria.
“Io dal balcone del rifugio – dice in una sua poesia – / in faccia alle cime innevate / che traforano il cielo / mi sento perduto nell’irraggiungibile”.
Di Vittorino poeta dirò solo poche parole, perché anche quando, passati gli anni, ebbi con lui rapporti più stretti, non più da amico del figlio, ma da amico personale, non amava particolarmente parlarne, sebbene ci tenesse alla divulgazione dei suoi scritti.
“Cantore della terra isolana”, dice il sottotitolo della serata. Io direi piuttosto che la terra isolana, che pure fu presente in lui come orizzonte costante della sua vita, gli serviva quasi da materia prima, da mezzo per esprimere attraverso di essa le sue inquietudini, le sue nostalgie, le sue emozioni, i suoi stati d’animo talora sofferti.
Anche nelle prime raccolte, quelle normalmente considerate più vicine ai temi del paesaggio, della montagna, in realtà la sua parola mi pare che vada a scavare nel paesaggio della sua anima, alla ricerca di risposte alle domande di sempre, sul tempo che passa, sul destino, sulla morte.
C’è il desiderio nei suoi versi, c’è l’amore, ed è un tema ricorrente, anche se è un amore già vissuto, passato, lontano… C’è la nostalgia, dicevo. C’è la fede, sì, ma c’è anche ricerca, tensione verso un mistero che rimane tale anche se accompagnato dalle certezze di una fede radicata. C’è una coscienza tormentata dalle domande di sempre: “ed io chi sono? Chi, se gli altri / tutti / sono per se stessi?” Domande quasi leopardiane direi. In effetti ci sono momenti nei quali si respira un’atmosfera di alta poesia, che ricorda persino poeti latini. La poesia Carso, che pure verrà letta, richiama il poeta latino Orazio, là dove dice:
“Tu vedi le lievi onde / dal mare muovere tranquille / in tenue sciabordio / e la pietra bianca del carso/ emergere aspra, inospite / sotto il formarsi delle nubi.”
Mentre Orazio:
“Tu vedi come si staglia il Soratte, candido per la neve alta, e come già i boschi affaticati non sostengono il peso, e i fiumi sono ghiacciati dal gelo acuto.”
Là il mare, qui la montagna, ma il ritmo è lo stesso. Non è imitazione, è padronanza di un linguaggio, e di un linguaggio alto, sublime.
Cantore della terra isolana dunque, sì: ma nel senso, a mio avviso, che Isola ha avuto in Vittorino un cantore non tanto e non solo del paesaggio isolano che egli pure amava, ma un cantore dello spirito umano, che nel paesaggio isolano poteva ieri, può oggi e potrà domani rispecchiare se stesso.
Vorrei concludere questo mio ricordo con le parole che Vittorino scrisse nelle Note che introducono il volume “Persone e fatti del 900 isolano”, un libro che egli curò, e che raccoglie i “medaglioni”, cioè i ritratti, scritti da un altro caro amico, il prof. Modena, di alcuni fra i personaggi isolani che nel secolo scorso si sono particolarmente distinti. Modena si augurava che il suo lavoro “potesse tornare utile, oltre alla gente di media cultura, anche alle nostre scuole, dove oggi è particolarmente raccomandata la cultura e la civiltà locale”. Commentando queste parole, Vittorino scriveva: “E’ l’augurio che faccio anch’io, convinto che le generazioni dei giovani hanno bisogno di conoscere quanto i loro padri hanno operato, anche modestamente nelle opere quotidiane, per consentire e garantire alla comunità isolana un vivere civile, non solo dignitoso e prospero, ma di alti valori.” E citando un filosofo francese concludeva: “Siamo debitori a coloro che ci hanno preceduto per l’eredità esistenziale e di esperienza trasmessaci”.
In un ideale “medaglione” a lui dedicato, credo che queste parole, che egli pronunciò per altri, possano tranquillamente essere riferite proprio al loro autore, cioè al nostro caro concittadino e amico Vittorino Stanzial.